Dunque, dove eravamo rimasti? Ah sì, al delirio più totale. Sei tizi, sei talenti unici, una sola ossessione: la prima pagina. Magari non di uomini dell’anno, sarebbe troppo, ma della settimana sì — il tempo, dopotutto, si misura in giorni ormai. Follia? Può darsi, ma d’altra parte ogni mondo produce gli eroi che si merita e questo è decisamente un mondo di pazzi – gente del calibro del Nodista o di Mancinella sono lì a testimoniarlo.
E che dire dei fan della Rotante? Seppur consapevoli della fatuità del loro idolo, questi zeloti arrivano persino a non compiere uno stupro pur di lavare l’offesa subita dalla loro icona. E, come se non bastasse, c’è un tipo che se ne va in giro indisturbato ad uccidere i protagonisti. O forse no. C’è chi lo chiama l’Invisibile, chi errore di stampa. Fatto sta che Aquila è morto (o forse no) sotto una letterale pinkwashata e di certo le pagine bianche non fanno questo genere di cose. O forse sì?
Gli altri cinque, da par loro, fanno di tutto per rendersi inutili, riuscendovi alla grande. Alter è ovunque, ma dove sia veramente non lo sa nemmeno lui. Da Da Da perde tempo (venti minuti, per l’esattezza). Puah!, il dissacratore, è impegnato in una lotta senza quartiere con don Baltico, un prete che fa il critico d’arte, o viceversa (tanto è lo stesso). Nel frattempo trascorrono tre anni e, tra un Eternity e un Pianeta dei Morti, Gli Uomini della Settimana sembrava essersi dissolto nel nulla, finché, di punto in bianco, ecco apparire il secondo volume sugli scaffali…
Queste apparizioni e improbabili ritorni hanno uno strano effetto sulla realtà. Sembra quasi che i nodi che tengono insieme i concetti e le cose si siano sciolti. Rimangono giusto i legami deboli delle risonanze — come tra i dialoghi di un vecchio film e i balloon del fumetto — e delle corrispondenze — tacchino-gallina-pollo — quasi che tutto il racconto fosse il prodotto di un condizionamento psicologico (non pensate al 7!), o un sogno (o magari entrambi). Buffo, no?
Uno ci mette una vita a cercare una parvenza di ordine nella realtà e poi si ritrova una pappa informe senza una struttura logica a tenerla in piedi. Ma non è il caso di piangere sulla maionese impazzita. Fermiamoci piuttosto sulla superficie e cerchiamo di non scivolare tra tutti questi salti di palo in frasca. Da Da Da non trova le parole per quello che sta capitando — non un problema da poco, per una parolhacker — e il massimo che riesce a fare è arrivare puntualmente in ritardo (quel tempo perso nel primo volume non è stato ancora ritrovato). Se la cava meglio Aquila, che dall’alto ha una visuale sicuramente migliore. Che sia opera o meno del fantasmatico Invisibile, ormai è evidente che non c’è più nulla in grado di “lasciare il segno”.
Idoli, non più idee, simulacri svuotati di sostanza; dimostrazioni piuttosto che azioni; una memoria collettiva incapace di ritenere il loro passaggio per più di qualche giorno e il dimenticatoio che letteralmente cresce a velocità esponenziali. Aquila comunque avrà anche capito che c’è qualcosa che non va in come va il mondo, ma non è mica il solo. Per esempio, anche il nuovo Puah!¹ è arrivato a un punto.
Scava che ti scava, il giovane risale a un sito, il sito ha un nome, il nome è Uqbar. Uqbar per ora è soltanto un indizio, certo, ma, dato che i cliffhanger sono i precursori delle pippe mentali, allora direi che siamo autorizzati a vederci, tra le varie cose, una confutazione della realtà oggettiva, una critica sui limiti del linguaggio di dare foggia alle illusioni — e quindi alla realtà stessa — e dell’utilizzo strumentale che ne fa il potere per autolegittimarsi, o magari si tratta solo del ghiribizzo sinaptico di una persona che ha scelto di ignorare volutamente tutto ciò che sta sotto la superficie. Quella persona non può essere altri che l’Ispirazione.
Forse senza accorgercene abbiamo pensato, sognato, parlato di lei per tutto il tempo. La sua è la storia di una resa, la vicenda di una forza magnetica capace di plasmare le coscienze di chi le sta accanto, ma che ad un certo punto della sua vita, constatata l’enorme pericolosità del suo potere, rinuncia alla complessità per abbracciare… Massimo Boldi!?
In fondo c’era da aspettarselo: questo secondo volume un po’ chiarisce e un po’ confonde, in quel labirintico gioco di fumo e specchi diventato ormai la cifra stilistica di Bilotta. Leggere una sua opera significa confrontarsi con un dedalo di simboli e sentieri interpretativi sempre più convoluti man mano che si penetra in profondità. Sentieri che in questo caso sembrano congiungersi e allo stesso tempo allontanarsi da quelli di un’altra sua graphic novel, vale a dire La Dottrina.
In quest’opera l’autore romano conduceva una lucida analisi del potere del linguaggio di plasmare nel bene e nel male la realtà, e dell’uso spregiudicato che ne fanno i regimi per assoggettare e controllare. È pur vero che Gli Uomini della Settimana parte da premesse sostanzialmente diverse, ma il suo sviluppo ondivago e surrealista (come un sogno guidato, direbbe Borges) sembra orientarsi verso conclusioni per certi aspetti simili. Del resto, se Neil Postman² affermava che, tra George Orwell e Aldous Huxley, il mondo ha scelto quest’ultimo, evidentemente si era resa necessaria una rivisitazione di quelle stesse tematiche alla luce del (non) sentire dei nostri tempi. Il timore di Orwell era per quelle persone con la malsana abitudine di bruciare i libri, Huxley invece temeva il giorno in cui non ce ne sarebbe stato alcun bisogno. In questo punto risiede il discrimine tra La Dottrina e Gli Uomini della Settimana, dove quest’ultimo ritrae una situazione se vogliamo ancora più pessimista e attinente al nostro quotidiano.
Chi ha letto La Dottrina ricorderà la figura del Nocchiere e la babelica macchina della propaganda che impone la sua dottrina sulle masse fin dalle scuole primarie. Dove sono finiti questi grandi fratelli? Dove si nasconde il telaio del bispensiero? Si sono tutti dissolti nell’acqua in cui siamo immersi; non li vediamo perché, essenzialmente, non è necessario. Se una dittatura è presente, è quella esercitata dalla dipendenza dal divertimento, dalla rinuncia a una qualsiasi forma di partecipazione e di pensiero critico, di prospettiva, di memoria.
Attraverso le tavole di Ponchione si specchia una sensibilità anestetizzata dal reiterarsi rassicurante dei cinepanettoni e della bellezza irreale di simulacri immateriali. Insomma, gira che ti rigira, si va a finire sempre in quella famosa caverna con il suo spettacolo di luci e ombre, ma questa volta ci siamo entrati con le nostre gambe. Nelle ultime pagine però lo spettacolo comincia a mostrare la corda. Forse il sogno sta per finire o forse ha preso coscienza del suo essere tale, e a noi non resta che aspettare il terzo volume per provare a vedere oltre, nella quasi certezza di ritrovarci in un’altra caverna uguale alla precedente.
Link Amazon.
NOTE:
¹: che comunque mi guarderei bene dal chiamare impostore. Dopotutto, cosa ne sappiamo dell’originale per definirlo tale? A ben vedere, lo stesso discorso vale anche per gli altri protagonisti.
²: Neil Postman, Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business (1985)
Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.
Grazie!